La sostenibilità si muove su tre assi di sviluppo: economico, ambientale e sociale. Tre dimensioni sempre più centrali, delineate dall’Agenda2030 dell’ONU, che chiamano in causa anche le informazioni fornite dal mercato ai consumatori. Una categoria sempre più attenta a queste tematiche, che necessita di tutela così come quelle imprese virtuose soggette a una concorrenza sleale di fronte a pratiche commerciali che si sostengono su affermazioni non veritiere.
Gli esperti di sostenibilità Giuseppe Patat e Cesare Saccani offrono una panoramica sulle verifiche, validazioni e certificazioni che, grazie all’accreditamento, garantiscono la trasparenza e l’affidabilità delle asserzioni aziendali, a beneficio di istituzioni, imprese e consumatori.
Cominciamo dalla recente proposta di Direttiva UE che cerca di definire quelli che sono i Green Claims, ovvero le dichiarazioni che il produttore trasmette al mercato per comunicare le caratteristiche ambientali di un prodotto o di un servizio. Dottor Patat, di che tipo possono essere queste “dichiarazioni verdi”?
Per quanto riguarda le tipologie di claim con le quali il consumatore si confronta ogni giorno, le più frequenti sono quelle che coinvolgono la televisione e i media in generale. Pensiamo, ad esempio, alle uova da galline allevate a terra: negli spot televisivi vediamo a volte delle infinite pianure di erba e immaginiamo che le galline si muovano lì dentro, ma nella realtà può anche essere che razzolino sì a terra ma in 20 centimetri quadrati con una rete attorno. Questo è il problema, ovvero che le persone sono sedotte dal messaggio senza riuscire a valutare con precisione gli elementi distintivi di un prodotto, senza comprendere se e come le asserzioni con cui si confrontano rispondano a criteri di legalità e scientificità né, soprattutto, quali siano gli organismi in grado di controllare la diffusione dei messaggi.
Siamo entrati definitivamente nel tunnel dell’informazione overload, ovvero in un sovraccarico di asserzioni su e attorno alla sostenibilità da cui sottrarsi sembra proprio impossibile. Il greenwashing, in questo momento, è effettivamente un’emergenza sociale che ha bisogno di risposte e le risposte non possono darle i produttori, ma soltanto gli organismi terzi e indipendenti. Perché i claim sulla sostenibilità rappresentano oggi il 25,6% dei prodotti a scaffale raggiungendo un fatturato da 12,5 miliardi di euro e utilizzando, a volte, termini come “senza glutine” apposti anche sull’acqua minerale oppure “senza lattosio” anche su prodotti che non sono venuti a contatto con il latte.
Le informazioni che possono essere rivolte al consumatore finale riguardano anche la governance dell’azienda. In questo senso, la recente Direttiva UE 2022/2464 ha inserito la rendicontazione di sostenibilità come parte integrante della relazione finanziaria delle imprese. Dottor Saccani, ci può presentare in sintesi i contenuti di questa direttiva, analizzando quello il coinvolgimento delle certificazioni sotto accreditamento?
La Direttiva UE 2022/2464 completa un quadro normativo che sta ancora evolvendo e che risponde a un’esigenza emergente non soltanto da parte dei consumatori, ma anche di banche, investitori e della Pubblica Amministrazione che si trova, per esempio, a erogare finanziamenti nell’ambito del PNRR. C’è una domanda di informazioni sempre più accurate, affidabili e credibili su tutti gli aspetti della sostenibilità e della responsabilità sociale delle organizzazioni.
Una domanda che è cresciuta rapidamente negli ultimi cinque anni e che, purtroppo, ha trovato risposta in un florilegio di rating, di marchi, certificazioni e di altre attestazioni, anche fuori da ogni controllo e regola, che hanno generato criteri disomogenei. Il Legislatore e le Autorità di controllo cominciano però a fare un po’ di ordine in termini di garanzie e informazioni fornite dalle aziende sugli aspetti della sostenibilità.
E, in questo contesto, la Direttiva Ue 2022/2464 chiede ad esempio alle aziende di preparare un rendiconto di sostenibilità in conformità a standard riconosciuti a livello internazionale. E impone che la qualità delle proprie informazioni venga verificata da attori come gli organismi accreditati. Si stima, in questo senso, che la platea delle imprese interessate a verificare sotto accreditamento la conformità del proprio rapporto di sostenibilità possa rapidamente passare da qualche migliaio a oltre 50mila.
Senza considerare, poi, le informazioni riguardanti la catena dei fornitori che determineranno, su scala europea, un ulteriore allargamento del numero che potrebbe anche triplicare. Un aspetto che va ancora affrontato in questo ambito riguarda, però, il fatto di come in Europa non esista ancora una norma, che per altro la direttiva stessa richiama, in grado di specificare il modo in cui si debba svolgere l’azione di verifica della conformità di un rapporto di sostenibilità.
Vorrei ricordare con il dottor Patat quali sono i vantaggi, per un organismo ma più in generale anche per istituzioni, imprese e consumatori, nel ricondurre sotto accreditamento la verifica e la validazione dei claim.
Una asserzione etica di responsabilità deve essere in grado di soddisfare le aspettative in tutte e tre le dimensioni dello sviluppo sostenibile: ambientale, sociale ed economica. E un claim che possa rispondere al consumatore allo stesso tempo sulle tre dimensioni richiede un approccio multidisciplinare per comprendere se e come un’azienda, prima di fare un’affermazione che riguardi, ad esempio, la sostenibilità sul piano sociale, non utilizzi magari minori garanzie sul piano dell’impresa, non abbia registrato al suo interno fenomeni di corruzione, rispetti tutti i criteri di proprietà intellettuale e industriale relativi allo stesso claim.
È importante, quindi, considerare come un’impresa possa iniziare un percorso di certificazione sotto accreditamento applicando tutte le norme cogenti, tutte le norme volontarie e tutti gli indicatori dei 17 obiettivi dell’Agenda ONU. Per facilitare l’estensione dalla sostenibilità ambientale anche sul piano sociale e su quello economico, così da non creare situazioni in cui l’azienda dichiara di rispettare e tutelare l’ambiente ma non fa lo stesso, ad esempio, sui lavoratori.
Tornando alla Direttiva sul reporting di sostenibilità, dottor Saccani qual è il ruolo che potrebbero ritagliarsi in primis la normazione tecnica ma ovviamente anche l’accreditamento e la certificazione?
Questa domanda di informazione sugli aspetti di sostenibilità delle organizzazioni coinvolge la valutazione di veridicità dei dati storici ma, soprattutto, un’analisi di carattere predittivo. Il che porta a un cambiamento di prospettiva perché non devo più limitarmi a valutare solo la conformità delle informazioni a dati e indicatori rispetto quello che è accaduto fino ad oggi. Ma devo cominciare a immaginare in che modo si informa il pubblico, e quindi le parti interessate, valutando ad esempio il rischio che un domani un’azienda possa violare aspetti di carattere sociale o essere poco attenta alla sicurezza, possa procurare danni ambientali o essere esposta al rischio di corruzione.
Tutto il mondo dell’informativa societaria sposta, quindi, il focus in avanti proiettandolo su valutazioni, certificazioni e accreditamento riconducibili al rischio. In un mondo che sta cambiando non è più sufficiente sapere qual è, ad esempio, la cilindrata di un motore e misurarne la conformità rispetto a determinati standard. Interessa, e sempre più interesserà, sapere quanti chilometri fa con un litro e quante emissioni di CO2 emette a fronte di questi consumi. È quindi performance è la parola chiave: sempre meno conformità e sistemi di gestione, sempre più orientamento ai risultati futuri.